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La corte di cassazione precisa i confini del mobbing: carico di lavoro elevato non basta a configurare persecuzione

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La questione del mobbing sul lavoro torna sotto i riflettori con una sentenza della corte di cassazione che chiarisce un aspetto cruciale. In un momento in cui lo stress lavorativo è un tema molto discusso, la Suprema Corte ha stabilito che un carico di lavoro intenso, se è legato a esigenze aziendali ordinarie e condivise, non costituisce di per sé mobbing. Questa pronuncia offre un orientamento fondamentale per lavoratori e imprese nel 2025, aiutando a distinguere tra pressione lavorativa e vera persecuzione.

La sentenza della corte di cassazione sul mobbing e il carico di lavoro

Il 28 maggio 2025 la sezione lavoro della corte di cassazione ha emesso la sentenza n. 14890, fondamentale per definire i confini del mobbing. Il caso riguardava un lavoratore che lamentava un carico di lavoro eccessivo, con ritmi serrati e obiettivi crescenti, denunciando nei confronti dell’azienda una condotta vessatoria. Secondo la corte, tuttavia, un aumento del lavoro non significa automaticamente molestie o persecuzioni.

La corte ha puntualizzato che il datore di lavoro ha il diritto di organizzare e dirigere l’impresa secondo necessità produttive o organizzative, come previsto dagli articoli 2086 e 2104 del codice civile. Questo potere comprende anche la possibilità di incrementare il carico lavorativo a fronte di picchi di produzione o ampliamenti del mercato, senza che ciò costituisca un abuso o una violazione dei diritti del lavoratore. L’assenza di atti intenzionali o ripetuti di vessazione ha portato alla bocciatura del reclamo presentato dal dipendente.

Il principio espresso con questa sentenza fa chiarezza in una materia delicata e spesso controversa, sottolineando che lo stress lavorativo è una condizione possibile, ma quando è giustificata e non accompagnata da discriminazioni mirate non può configurare mobbing.

Il caso concreto e la distinzione tra obiettivi di lavoro e vessazioni

Nel procedimento esaminato, il dipendente aveva lamentato un ritmo lavorativo insostenibile e un’organizzazione interna rigida, che prefiggevano per lui un clima di pressione costante e affinamento. La corte, però, ha fatto rilevare che tutte queste condizioni erano già presenti alla firma del contratto, e accettate dal lavoratore stesso.

Lo sbalzo del carico di lavoro risultava derivare da motivazioni aziendali condivisibili: crescita del volume di clienti e stagionalità nella domanda. La corte ha chiarito che, quando le richieste sono generali e colpiscono tutti i dipendenti allo stesso modo, si allontana il sospetto di mobbing. La presenza di comportamenti reiterati, discriminatori e mirati è essenziale per configurare una persecuzione sul luogo di lavoro.

Questa sentenza fa emergere con forza che le lamentele generiche sull’aumento delle responsabilità o sulle scadenze ravvicinate non configurano un danno persecutorio. Serve una prova concreta di un atteggiamento volto a isolare o danneggiare in modo sistematico un singolo lavoratore.

L’onere della prova del lavoratore nei casi di presunto mobbing

Uno dei punti più importanti in tema di mobbing è la responsabilità della prova. La corte di cassazione ha ricordato che solamente chi denuncia il mobbing può dimostrare tre elementi chiave. Il primo è l’effettivo danno subito, sia fisico che psicologico, da documentare tramite certificati medici, relazioni di specialisti o accertamenti tecnici.

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Il secondo elemento riguarda l’ambiente lavorativo, che deve presentare caratteristiche di ostilità o degrado tali da poter produrre quel danno. Infine, il terzo elemento consiste in un nesso causale diretto tra la situazione lavorativa e il danno accertato.

Nel caso concreto il lavoratore aveva solo descritto uno stato di stress e affaticamento, senza presentare elementi probatori specifici o citare episodi di discriminazione. La corte ha quindi respinto il ricorso e non ha ritenuto la posizione aziendale ingiusta. Di riflesso, questo pone in rilievo come la semplice stanchezza da lavoro intenso non basti a configurare mobbing.

Le conseguenze pratiche della sentenza per lavoratori e aziende

La sentenza n. 14890 del 2025 costituisce un punto di riferimento importante per il mondo del lavoro, soprattutto in settori caratterizzati da ritmi sostenuti come commercio, call center, sanità e consulenza. Definisce un confine chiaro tra lavoro intenso e molestie sul posto.

Per le aziende si tratta di un segnale di tutela nei confronti delle proprie scelte organizzative, ma non autorizza abusi. La legge stabilisce ancora l’obbligo di proteggere la salute dei dipendenti, imponendo l’obbligo di eliminare o ridurre al minimo rischi eccessivi di danni psicofisici.

Se il carico di lavoro supera certi limiti, o se le pratiche diventano vessatorie o discriminatorie verso singoli individui, il mobbing resta un illecito perseguibile. Rimane quindi sempre indispensabile per i datori di lavoro trovare un equilibrio tra esigenze produttive e benessere dei lavoratori.

La corte ha voluto, dunque, distinguere il lavoro impegnativo dalla persecuzione ingiustificata, offrendo una guida più netta per evitare che si usi impropriamente il termine mobbing. In effetti non basta più lamentarsi di un incarico gravoso, ma va dimostrata la sistematicità di un disegno persecutorio per ottenere tutela giuridica.

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