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La jugoslavia del 1990 tra ricordi, violenze e il ritorno di due giovani nel nuovo romanzo di elvira mujcic

Nel suo nuovo libro, Elvira Mujcic ripercorre il dramma e le speranze di una Jugoslavia al tramonto. Ambientato nel 1990, un anno cruciale per il paese, il romanzo esplora come il ritorno al passato possa sfociare in tensioni e violenze, offrendo un ritratto intenso di una stagione segnata da divisioni e ricordi dolorosi. La narrazione si intreccia con le esperienze personali dell’autrice, che ha vissuto la guerra in Bosnia e oggi racconta quel tempo attraverso gli occhi di due giovani protagonisti.

Il contesto storico e sociale della jugoslavia sul limite del cambiamento

La Jugoslavia del 1990 stava vivendo un momento di profonda trasformazione e crisi. I nazionalismi, cresciuti negli anni precedenti, stavano scalpitando al punto da rischiare di frantumare il paese, una terra composta da diverse repubbliche e popoli con storie distinte ma intrecciate. In questo scenario, l’ossessione per il passato si tramuta in un’arma per giustificare divergenze e ingiustizie. L’esasperazione della memoria diventa terreno fertile per la paura e la violenza, e la fragile coesione sociale si sgretola.

Elvira Mujcic concentra la sua attenzione su questo momento di svolta. Da un lato, il legame con la memoria e la storia comune, dall’altro il crescente rischio di conflitti sanguinosi. La tensione è percepibile nei piccoli centri, in particolare nei territori vicino a Sarajevo, dove le vite quotidiane cominciano a essere incise da timori e sospetti. La narrazione richiama una stagione in cui la guerra e l’esilio diventano elementi tragici ma centrali per capire ciò che stava accadendo.

I protagonisti e le loro esperienze di ritorno e memoria

Nel romanzo, due giovani tornano nel loro paese natio, un piccolo centro vicino a Sarajevo. Nene e Merima si trovano di fronte a un mondo che sta cambiando in fretta e che porta con sé rancori difficili da superare. Nene, artista, è ossessionato dall’idea che il concetto di jugoslavità rischi di scomparire completamente. Non vuole che le storie e le vite della sua generazione vengano dimenticate. Il suo desiderio è di creare un’opera che racconti quel tempo, un memoriale contro l’oblio e le violenze imminenti.

Merima, invece, cerca di trovare un senso alle ferite che il paese e la sua storia le hanno lasciato. Ha dentro una ferita profonda, emotiva, legata anche al suo passato familiare. È determinata a lottare contro il ritorno dei nazionalismi che minacciano di soffocare ogni speranza. La sua figlia Eliza, una bambina di otto anni, incarna questa eredità dolorosa: non ha mai conosciuto suo padre, un’assenza che racconta molto dei nuovi fantasmi che circondano la famiglia e la comunità. I nomi di certi lutti e paure nemmeno si possono pronunciare in casa, a sottolineare quanto la violenza abbia profondamente segnato i legami umani.

L’autrice tra memoria personale e racconto collettivo

Elvira Mujcic ha vissuto in prima persona il conflitto nei Balacani. Nata in Jugoslavia nel 1980, ha lasciato il paese durante la guerra in Bosnia Erzegovina e si è trasferita in Italia. Da allora ha costruito una carriera letteraria e giornalistica dedicata a storie di migrazione, identità e memoria.

Il suo libro si inserisce in questo percorso, offrendo uno sguardo dal dentro su una fase storica tanto cruciale quanto ancora non del tutto elaborata. Mujcic spiega che il ritorno, sia fisico che emotivo, implica una grande maturità e capacità di comprendere il peso della storia. La guerra e l’esilio sono temi ricorrenti, ma ragionati con la consapevolezza di chi ha visto quei drammi da vicino.

L’attenzione al massacro di Srebrenica, di cui ricorrevano nel 2025 i trent’anni, rappresenta uno snodo fondamentale nel lavoro di Mujcic. L’autrice ha aperto la serata del Festival Letterature a Roma con un testo inedito ispirato a quell’evento, dimostrando come la narrazione e la testimonianza siano strumenti indispensabili per non lasciare che storie così terribili scivolino nell’oblio.

La dimensione culturale e il valore del linguaggio nel romanzo

Nel racconto l’arte e la cultura emergono come elementi centrali per comprendere e affrontare il tempo che cambia. Nene, in particolare, si serve dell’arte per conservare la memoria e restituire dignità a un’identità messa a rischio dai nazionalismi.

Il romanzo sottolinea che la lingua, i racconti, le storie di ogni giorno sono la base da cui partire per elaborare lutti e conflitti. L’assenza del padre di Eliza, il silenzio sui nomi proibiti in famiglia, raccontano come il trauma si trasmetta nella vita quotidiana.

Mujcic evidenzia come la cultura possa fungere da ponte verso un altro futuro possibile. La scrittura e la narrazione contribuiscono a radicare le memorie senza lasciarle impigliate in recinti di odio o vendetta. Il libro invita a osservare le contraddizioni di un’epoca e a prendere coscienza delle ferite, senza nascondere la complessità del passato jugoslavo.

L’impatto del romanzo sul pubblico e la riflessione pubblica

L’uscita de «La stagione che non c’era», inizialmente prevista per il 26 agosto 2025, si presenta come un’occasione per riflettere su eventi troppo spesso dimenticati o travisati. Chi legge viene chiamato a confrontarsi con storie individuali e collettive, con drammi ancora vivi nel presente.

Il libro si inserisce in un dibattito vivo su come ricordare e raccontare la storia. Mujcic porta in luce quanto il ritorno alle origini non possa essere un semplice gesto di nostalgia, ma un impegno complesso, che richiede confronti e verità scomode.

Così la narrazione, anche nelle scelte artistiche, diventa strumento per capire le conseguenze delle divisioni e le possibilità di un futuro meno segnato da conflitti. Elvira Mujcic non elude i nodi difficili, ma li rivela nel loro intreccio con le vite delle persone comuni e delle nuove generazioni.

Monica Ghilocci

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