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La vita di un neonato dell’età del rame ricostruita con frammenti di dente e dna a faenza

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Il ritrovamento di pezzi dentali e piccoli frammenti ossei a Faenza ha permesso di fare luce sulla vita di un bambino vissuto durante l’età del rame. Un gruppo di ricercatori coordinato dall’università di Bologna ha elaborato una ricostruzione dettagliata partendo da resti fortemente deteriorati. L’uso di tecniche moderne ha aperto nuove possibilità per indagare su individui del passato, anche quando il materiale a disposizione è esiguo e in cattive condizioni.

Ritrovamento dei resti e contesto archeologico a faenza

Nel corso di uno scavo archeologico preventivo nella città di Faenza, in provincia di Ravenna, sono stati recuperati resti scheletrici molto frammentati, risalenti all’età del rame. I reperti erano ridotti a poche corone dentarie e piccoli pezzi di ossa, quasi privi di parti consistenti. Questi elementi, apparentemente poveri di informazioni, hanno attirato l’attenzione degli studiosi per un’analisi più approfondita.

L’età del rame, che in Italia si colloca grossomodo tra il 3500 e il 2300 a.C., è un periodo caratterizzato da mutamenti sociali e tecnologici. Anche in questo contesto, poter recuperare dati sulla vita di un individuo così giovane rappresenta un elemento prezioso. I resti sono stati trovati in un’area urbana oggi densamente abitata, rivelando tracce di antiche frequentazioni e insediamenti. Questo ha permesso di inquadrare il reperto non solo dal punto di vista cronologico ma anche culturale.

Metodologie usate per analizzare resti scheletrici degradati

Nonostante il decadimento dei resti ossei, il team di ricerca ha impiegato tecniche avanzate per ottenere dati precisi. L’indagine ha incluso l’uso di laser per la scansione dettagliata delle superfici dentali e ossee, sistemi di datazione al radiocarbonio per collocare il ritrovamento nel tempo, oltre a studi microstrutturali e istologici per valutare la composizione tessutale.

A ciò si sono aggiunte analisi genomiche per estrarre il dna, anche se parziale, e metodi paleoproteomici per leggere le proteine rimaste nei denti. Queste tecniche hanno permesso di ricostruire informazioni riguardanti l’età alla morte del neonato, stimata intorno ai 17 mesi. Si è anche determinato il sesso maschile. Lo studio ha rivelato tracce dell’ascendenza materna del piccolo attraverso analisi del dna mitocondriale.

Questo approccio ha dimostrato quanto importanti possano risultare anche frammenti scheletrici molto degradati. Grazie al mix di metodi la ricerca ha oltrepassato i limiti imposti dal deterioramento, mostrando che anche resti apparentemente insignificanti possono fornire dettagli cruciali sul passato.

Collaborazione internazionale e gruppi di ricerca coinvolti

Lo studio, pubblicato sul Journal of archaeological science, si è avvalso della collaborazione di otto istituti accademici e centri di ricerca. Oltre all’università di Bologna, hanno partecipato la Sapienza di Roma, il Max Planck institute for evolutionary anthropology, l’università di Modena e Reggio Emilia, la Goethe Universität di Francoforte, il Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University, l’università del Salento, l’università di Padova e il Ministero della cultura italiano.

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Questa rete interdisciplinare ha permesso di mettere insieme competenze diverse, dallo scavo archeologico alle tecniche di laboratorio più avanzate. I ricercatori hanno unito i dati ottenuti da vari strumenti per formare un quadro più completo della vita e delle origini del neonato.

Interazione tra discipline scientifiche

L’interazione tra antropologia, genomica e chimica ha rappresentato un punto chiave per riuscire a superare le difficoltà imposte dalla scarsa conservazione del materiale. Il caso di Faenza è diventato un esempio di quanto una sinergia scientifica articolata possa trasformare un piccolo frammento in una testimonianza dettagliata.

Il valore scientifico dello studio secondo gli esperti

Owen Alexander Higgins, assegnista del dipartimento di beni culturali dell’università di Bologna e primo autore dello studio, ha sottolineato come i resti scheletrici mal conservati vengano di frequente scartati. La qualità peggiore degli elementi ossei limita la possibilità di formulare ipotesi accurate sulle persone vissute nel passato. La ricerca ha dimostrato, però, che anche elementi degradati conservano dati importanti se analizzati con strumenti di ultima generazione.

Stefano Benazzi, responsabile del laboratorio di osteoarcheologia e paleoantropologia di Bologna, ha evidenziato come la strategia bioarcheologica integrata adottata restituisca informazioni sulle storie di vita antiche, anche quando i reperti sono in condizioni critiche. La capacità di ricavare dati sull’età del bambino, sul sesso e sull’ascendenza è diventata possibile proprio grazie alla combinazione di metodi.

Lo studio testimonia un cambio di approccio verso i materiali meno visibili o poco conservati. Applicare tecniche dettagliate può aprire opportunità a livello scientifico, permettendo di riempire vuoti nella conoscenza dei gruppi umani antichi, soprattutto nei casi in cui le fonti fossili sono poche o difficili da interpretare.

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