Nelle prime settimane della pandemia da Covid-19, il carcere di Rebibbia a Roma è stato teatro di una violenta rivolta tra i detenuti. Il motivo principale furono le restrizioni imposte per contenere il virus, che impedirono le visite dei familiari. Da allora, i fatti sono passati attraverso un processo che ha coinvolto decine di imputati, con esiti tra condanne e assoluzioni. Questo articolo ricostruisce i passaggi più importanti e le decisioni del tribunale, chiarendo il contesto e i protagonisti di quella giornata drammatica.
Il 9 marzo 2020, a pochi giorni dall’espandersi del Covid-19 in Italia, la tensione era alle stelle all’interno di Rebibbia, uno dei penitenziari più grandi di Roma. L’annuncio delle misure anti-contagio, che includevano la sospensione delle visite dei parenti ai detenuti, innescò una protesta violenta nel reparto G11. I disordini degnarono presto in una vera e propria sommossa, con materassi dati alle fiamme e arredi rotti. Le sequenze di quegli attimi sono state descritte come caos totale, capace di mettere a rischio la sicurezza sia dei detenuti che degli agenti.
Il bilancio materiale dell’episodio fu pesante: si contarono danni per circa 75mila euro e almeno qualche agente giudicato ferito durante la rissa. In quel momento, l’attenzione delle autorità si concentrò sulla necessità di riportare ordine e capire le responsabilità alla base della sommossa. La situazione divenne così grave da richiedere un’indagine dettagliata per ricostruire la dinamica degli eventi e individuare i principali responsabili.
Nei giorni scorsi, la prima sezione collegiale del tribunale di Roma, presieduta dai giudici Alfonso Sabella, Francesco Salerno e Giulia Cortoni, ha emesso la sentenza definitiva riguardo 46 detenuti imputati in relazione alla rivolta. Tra questi figuravano anche alcuni reclusi provenienti dalla provincia di Latina.
Il verdetto ha stabilito l’assoluzione per 23 degli imputati, giudicati non colpevoli o privi di elementi probatori sufficienti. Tra gli assolti spiccano nomi come Serafino Fugante e Alessandro Elias Lazzarini, quest’ultimo originario di Latina, difesi dagli avvocati Adriana Anzeloni, Alessia Vita e Sandro Marcheselli. La Corte ha sottolineato, nel caso di Lazzarini, che non sono emersi elementi che attestassero la sua partecipazione ai disordini.
Per gli altri, le condanne variano da pochi mesi fino a otto anni di reclusione. Un esempio è Alessandro Sinisi, cui è stata inflitta una pena di un anno, con esclusione della recidiva e riconoscimento delle attenuanti generiche, proprio perché la sua posizione appariva marginale rispetto al resto dei fatti. Le pene più severe sono state comminate a chi, secondo il processo, ha avuto un ruolo guida nella rivolta, come Marco Gallorini e Mattia Schiavi, condannati a otto anni.
I reati contestati a seconda dell’accusa sono stati diversi. Vanno dal danneggiamento, al sequestro di persona, dalla rapina all’incendio e alla devastazione. Questi episodi, creati durante la sommossa, hanno segnato profondamente la vita del carcere e quella degli agenti penitenziari presenti.
Fondamentale per l’identificazione dei colpevoli si è rivelata la raccolta di prove video. Il sistema di telecamere interno a Rebibbia ha permesso alle forze dell’ordine e alla procura di ricostruire nel dettaglio quanto accaduto. Grazie a quei filmati, è stato possibile attribuire con certezza le responsabilità e delineare le condotte di ogni singolo detenuto. Senza queste immagini, la ricostruzione avrebbe avuto molti più punti oscuri.
L’inchiesta ha preso forma grazie al lavoro dei pubblici ministeri Eugenio Albamonte e Francesco Cascini, che hanno coordinato le indagini e raccolto gli elementi necessari alla formulazione delle accuse. Nel capo d’imputazione emergono scene di tensione elevata in cui alcuni detenuti hanno minacciato e insultato gli agenti, talvolta arrivando a dragliare alla libertà con intenti violenti.
Tra gli imputati più noti nella sommossa ci sono detenuti collegati a clan criminali, come Leandro Bennato. Considerato vicino a Giuseppe Molisso del clan Senese, Bennato è stato condannato a cinque anni e sei mesi. Nel processo, comparivano dichiarazioni e prove in cui Bennato avrebbe inneggiato alla “libertà” e rivolto minacce di morte agli agenti di polizia penitenziaria, elementi che hanno aggravato la sua posizione.
Nel 2022, la pubblica accusa ha presentato le richieste di pena. Il pm ha mostrato una certa comprensione per lo stato d’animo dei detenuti, messo a dura prova dalla paura del virus nelle prime settimane della pandemia. Per contro, ha puntualizzato che ci furono anche momenti di protesta pacifica, per esempio nella sezione femminile di Rebibbia, distinta dai disordini esplosi nel reparto maschile. Per sostenere la tesi accusatoria, la procura ha consegnato cinque dvd contenenti immagini e filmati utili a ricostruire con precisione le azioni dei sospetti responsabili.
L’equilibrio trovato in quelle richieste ha tenuto conto sia delle motivazioni che spinsero la rabbia in carcere, sia della gravità dei gesti messi in atto durante la ribellione.
Il tribunale ha completato le decisioni, confermando che pure a fronte delle giustificazioni, era necessario punire gli atti di violenza. Si è così chiusa una pagina difficile, che ha fatto emergere come la pandemia abbia pesato non solo fuori, ma anche dietro le sbarre.
L’intervento tempestivo dei carabinieri di alatri ha evitato un dramma in una famiglia della zona.…
L’istituto italiano di cultura di madrid ha un nuovo direttore: Elena Fontanella, scelta dopo un…
Il 65enne barone Ara Darzi, componente della Camera dei Lord del Regno Unito e membro…
Il coordinamento provinciale di Forza Italia a Frosinone ha attivato una procedura disciplinare che potrebbe…
La mostra “La navigazione nel Mediterraneo” ha aperto al pubblico al castello Gaetani di Fondi,…
Un episodio di violenza ha sconvolto una zona periferica di roma dove una coppia è…